La nostra capacità di concentrazione sta davvero diminuendo nell’era digitale? Un’analisi critica sul rapporto tra intelligenza artificiale, algoritmi e attenzione umana.
È mattina. Scorriamo le notifiche, rispondiamo a un messaggio vocale, apriamo il browser per controllare le notizie e nel frattempo, mentre un’app ci suggerisce la playlist ideale per concentrarci, un’altra ci avvisa che il nostro tempo di utilizzo è già sopra la media. La mente salta da un’informazione all’altra, senza mai posarsi davvero.
In questo scenario sempre più comune, l’intelligenza artificiale ha un ruolo decisivo, spesso invisibile, ma profondo. Il nostro rapporto con l’attenzione è cambiato. E forse siamo arrivati al punto in cui dovremmo chiederci: riusciamo ancora a proteggerla?
L’economia dell’attenzione: quando il focus diventa merce
Il concetto stesso di attenzione si è trasformato nell’era digitale. Un tempo risorsa interiore da coltivare, oggi è oggetto di contesa tra piattaforme, algoritmi, pubblicità personalizzate. L’attenzione non è più solo nostra, ma viene misurata, analizzata, manipolata da sistemi intelligenti addestrati per mantenerci connessi il più a lungo possibile.
Non è un caso se molti ex-dirigenti delle big tech parlano apertamente di “economia dell’attenzione” come di una vera e propria forma di estrazione cognitiva, simile a quella delle risorse naturali. I contenuti social (e gli algoritmi) catturano il nostro tempo che oggi è diventato merce preziosa, come spiega la sociologa Nicoletta Vittadini.
L’intelligenza artificiale, con la sua capacità di anticipare comportamenti, costruire profili predittivi e personalizzare i contenuti in tempo reale, contribuisce a creare ambienti digitali su misura. Apparentemente rassicuranti, ma in realtà progettati per ridurre lo spazio della scelta consapevole. Il nostro tempo mentale diventa frammentato, il focus si assottiglia, la profondità lascia spazio alla velocità. Siamo connessi a tutto, ma scollegati da noi stessi.
La scienza conferma: l’attenzione sotto assedio
La ricerca psicologica conferma questi cambiamenti. Uno studio condotto dall’Università del Texas ha evidenziato come la semplice presenza dello smartphone, anche spento, riduca significativamente la capacità di attenzione durante un compito cognitivo. La ricerca ha coinvolto 548 volontari e ha dimostrato che le capacità intellettive risultano limitate del 20% quando il telefono è presente, indipendentemente dal fatto che sia acceso o spento.
Altri studi, come quelli condotti alla Stanford University dal team del professor Clifford Nass, mostrano che l’esposizione continua a stimoli digitali predittivi riduce la soglia della noia, creando un bisogno costante di novità e interazione. La ricerca ha rivelato un dato sorprendente: i multitasker seriali (heavy media multitaskers) sono “suckers for irrelevancy” – vittime dell’irrilevanza, incapaci di filtrare le informazioni non necessarie.
Più di 11 anni di ricerca hanno dimostrato che le persone che usano frequentemente molti tipi di media contemporaneamente ottengono prestazioni significativamente peggiori in semplici compiti di memoria, conferma Anthony Wagner, direttore dello Stanford Memory Laboratory.
L’intelligenza artificiale diventa così un amplificatore delle nostre vulnerabilità cognitive, sfruttando meccanismi neurali che si sono evoluti in contesti completamente diversi da quello digitale attuale.
Gli algoritmi che modellano la nostra attenzione
Gli algoritmi dei social media non si limitano a presentarci contenuti: fanno sì che gli utenti visualizzino prevalentemente i contenuti che confermano le loro opinioni e aderiscono alla loro visione del mondo, come dimostra uno studio pubblicato su PNAS.
Questa dinamica, nota come “echo chamber”, ha effetti profondi sulla nostra capacità attentiva. I bias sociali e cognitivi finiscono per farci prestare maggiore attenzione alle informazioni che diventano “virali”, anche se questi contenuti non sono certamente indici di affidabilità e qualità dell’informazione.
Il risultato è un circolo vizioso in cui gli algoritmi prediligono i contenuti che reputano di qualità, ovvero quei contenuti che soddisfano i numeri: più visualizzazioni, più commenti, più like, più interazioni. La nostra attenzione viene catturata non dalla qualità intrinseca dell’informazione, ma dalla sua capacità di generare engagement.
Il mito del multitasking e la realtà neurobiologica
Contrariamente alla credenza popolare, il cervello umano non è progettato per il multitasking. Non facciamo multitasking. Cambiamo attività. La parola “multitasking” implica che puoi fare due o più cose contemporaneamente, ma in realtà i nostri cervelli ci permettono di fare solo una cosa alla volta e dobbiamo passare da una all’altra, spiega Anthony Wagner di Stanford.
Le ricerche dimostrano che un uso eccessivo del media multitasking induce un calo notevole nella qualità delle prestazioni dal momento che i soggetti “heavy” sono risultati essere maggiormente suscettibili alla distrazione, con difficoltà nel discriminare stimoli rilevanti da quelli irrilevanti.
Questo ha implicazioni profonde per l’apprendimento e la produttività. Il fenomeno del media multitasking all’interno delle classi è stato dimostrato avere conseguenze negative in quanto la presenza di laptop può causare un decremento nell’apprendimento non solo al diretto utilizzatore, ma anche ai compagni che si trovano vicini nello spazio.
Intelligenza artificiale: nemico o alleato?
Ma sarebbe ingiusto fermarsi a una condanna generica. L’IA non è il nemico. È uno specchio. Riflette e moltiplica ciò che già esiste dentro di noi. È possibile immaginare un rapporto diverso, più consapevole, in cui la tecnologia non ci sottragga attenzione, ma ci aiuti a recuperarla?
In fondo, esistono già applicazioni che vanno in questa direzione: strumenti di meditazione guidata, intelligenze artificiali che regolano il tempo di esposizione agli schermi, interfacce che riducono il sovraccarico sensoriale. L’AI può diventare un’alleata del benessere mentale, se la progettiamo con questa intenzione.
Come abbiamo visto nel nostro articolo su come ChatGPT sta cambiando il nostro modo di comunicare, la velocità e l’efficienza portano con sé anche il rischio della superficialità. Lo stesso vale per l’attenzione: delegarla all’algoritmo significa accettare una forma di delega della coscienza.
L’attenzione come atto politico
C’è poi un altro livello, più sottile, che riguarda il modo in cui l’intelligenza artificiale reinterpreta la realtà per noi. Il flusso di informazioni che consumiamo è filtrato, selezionato e cucito su misura da algoritmi che apprendono dai nostri clic, dalle nostre esitazioni, persino dai movimenti oculari. Questo influisce su ciò che vediamo, ma anche su ciò che non vediamo. E in un certo senso, ciò che non vediamo è ciò che siamo meno capaci di scegliere.
In questo contesto, la nostra attenzione non è solo una funzione cognitiva, ma un atto politico. Scegliere dove guardare, quanto tempo dedicare a un contenuto, decidere di leggere fino in fondo o interrompere lo scroll continuo, sono gesti di autodeterminazione. Resistere alla frammentazione diventa un modo per riappropriarci della mente.
L’attenzione, come scrive il filosofo James Williams – ex designer di Google, poi diventato uno dei pensatori più lucidi sulla questione – è il bene più prezioso che abbiamo in un mondo sovraccarico di stimoli. Nel suo libro “Stand Out of Our Light” spiega come il design degli ambienti digitali dovrebbe essere orientato non a catturare l’attenzione, ma a proteggerla.
Williams suggerisce che dovremmo essere capaci di fare ciò che vogliamo fare (la luce del riflettore), essere chi vogliamo essere (la luce delle stelle) e volere ciò che vogliamo volere (la luce del giorno). Tre fonti di luce corrispondenti a tre livelli di profondità cognitiva.
Un principio rivoluzionario, eppure tanto semplice. La domanda non è più solo “possiamo fare di più con l’AI?”, ma anche “possiamo fare meno, meglio?”.
Strategie per riconquistare il focus
Lo psicologo cognitivo Stefan Van der Stigchel suggerisce alcuni accorgimenti per migliorare la propria concentrazione: l’importanza di allenarsi a concentrarsi con adeguate pause per consolidare quanto appreso e ricaricare le energie; la meditazione, che si rivela un training efficace per potenziare la capacità di focus; la disconnessione in determinati momenti della giornata per evitare sollecitazioni continue.
Possiamo scegliere di rallentare. Possiamo decidere di costruire momenti di silenzio digitale, dove la mente non sia assediata da stimoli, ma possa semplicemente esistere. Anche in questo, l’AI può aiutarci, se impariamo a domandarle le cose giuste, a costruire spazi digitali non basati sull’hyper engagement, ma sulla qualità dell’esperienza.
Una sfida collettiva
Riprenderci il focus non è solo un compito individuale. È una sfida collettiva. Riguarda il modo in cui costruiamo le nostre tecnologie, ma anche la cultura che le accompagna. Possiamo ripensare le nostre abitudini, ridisegnare le priorità.
Non si tratta di abbandonare l’AI, ma di abitare con più consapevolezza il mondo che essa contribuisce a plasmare. Come abbiamo esplorato analizzando l’effetto dell’AI sulla nostra psicologia, la tecnologia può diventare uno strumento di comprensione e crescita personale, anziché di distrazione e frammentazione.
Nel rumore costante dell’era digitale, l’attenzione è resistenza. È presenza. È, forse, il primo passo per tornare davvero a noi stessi.