Focus in the crisis: how AI affects our daily attention

È mattina. Scorriamo le notifiche, rispondiamo a un messaggio vocale, apriamo il browser per controllare le notizie e nel frattempo, mentre un’app ci suggerisce la playlist ideale per concentrarci, un’altra ci avvisa che il nostro tempo di utilizzo è già sopra la media. La mente salta da un’informazione all’altra, senza mai posarsi davvero. In questo scenario sempre più comune, l’intelligenza artificiale ha un ruolo decisivo, spesso invisibile, ma profondo. Il nostro rapporto con l’attenzione è cambiato. E forse siamo arrivati al punto in cui dovremmo chiederci: riusciamo ancora a proteggerla?

Il concetto stesso di attenzione si è trasformato nell’era digitale. Un tempo risorsa interiore da coltivare, oggi è oggetto di contesa tra piattaforme, algoritmi, pubblicità personalizzate. L’attenzione non è più solo nostra, ma viene misurata, analizzata, manipolata da sistemi intelligenti addestrati per mantenerci connessi il più a lungo possibile. Non è un caso se molti ex-dirigenti delle big tech parlano apertamente di “economia dell’attenzione” come di una vera e propria forma di estrazione cognitiva, simile a quella delle risorse naturali.

L’intelligenza artificiale, con la sua capacità di anticipare comportamenti, costruire profili predittivi e personalizzare i contenuti in tempo reale, contribuisce a creare ambienti digitali su misura. Apparentemente rassicuranti, ma in realtà progettati per ridurre lo spazio della scelta consapevole. Il nostro tempo mentale diventa frammentato, il focus si assottiglia, la profondità lascia spazio alla velocità. Siamo connessi a tutto, ma scollegati da noi stessi.

La ricerca psicologica conferma questi cambiamenti. Uno studio condotto dalla University of Texas ha evidenziato come la semplice presenza dello smartphone, anche spento, riduca significativamente la capacità di attenzione durante un compito cognitivo. Altri studi, come quelli della Stanford University, mostrano che l’esposizione continua a stimoli digitali predittivi riduce la soglia della noia, creando un bisogno costante di novità e interazione. L’intelligenza artificiale diventa così un amplificatore delle nostre vulnerabilità cognitive.

Ma sarebbe ingiusto fermarsi a una condanna generica. L’AI non è il nemico. È uno specchio. Riflette e moltiplica ciò che già esiste dentro di noi. È possibile immaginare un rapporto diverso, più consapevole, in cui la tecnologia non ci sottragga attenzione, ma ci aiuti a recuperarla?

In fondo, esistono già applicazioni che vanno in questa direzione: strumenti di meditazione guidata, intelligenze artificiali che regolano il tempo di esposizione agli schermi, interfacce che riducono il sovraccarico sensoriale. L’AI può diventare un’alleata del benessere mentale, se la progettiamo con questa intenzione. La sfida è culturale prima ancora che tecnologica: si tratta di educarci a un uso critico, non passivo, degli strumenti che ci circondano. Di imparare a porre limiti, anche quando la macchina non lo fa per noi.

C’è poi un altro livello, più sottile, che riguarda il modo in cui l’intelligenza artificiale reinterpreta la realtà per noi. Il flusso di informazioni che consumiamo è filtrato, selezionato e cucito su misura da algoritmi che apprendono dai nostri clic, dalle nostre esitazioni, persino dai movimenti oculari. Questo influisce su ciò che vediamo, ma anche su ciò che non vediamo. E in un certo senso, ciò che non vediamo è ciò che siamo meno capaci di scegliere.

In questo contesto, la nostra attenzione non è solo una funzione cognitiva, ma un atto politico. Scegliere dove guardare, quanto tempo dedicare a un contenuto, decidere di leggere fino in fondo o interrompere lo scroll continuo, sono gesti di autodeterminazione. Resistere alla frammentazione diventa un modo per riappropriarci della mente.

L’attenzione, come scrive il filosofo James Williams – ex designer di Google, poi diventato uno dei pensatori più lucidi sulla questione – è il bene più prezioso che abbiamo in un mondo sovraccarico di stimoli. Nel suo libro Stand Out of Our Light spiega come il design degli ambienti digitali dovrebbe essere orientato non a catturare l’attenzione, ma a proteggerla. Un principio rivoluzionario, eppure tanto semplice. La domanda non è più solo “possiamo fare di più con l’AI?”, ma anche “possiamo fare meno, meglio?”.

Nel blog abbiamo già affrontato il modo in cui ChatGPT sta cambiando il nostro modo di comunicare, sottolineando come la velocità e l’efficienza portino con sé anche il rischio della superficialità. Lo stesso vale per l’attenzione: delegarla all’algoritmo significa accettare una forma di delega della coscienza.

Eppure, c’è ancora spazio per una diversa relazione. Possiamo scegliere di rallentare. Possiamo decidere di costruire momenti di silenzio digitale, dove la mente non sia assediata da stimoli, ma possa semplicemente esistere. Anche in questo, l’AI può aiutarci, se impariamo a domandarle le cose giuste, a costruire spazi digitali non basati sull’hyper engagement, ma sulla qualità dell’esperienza.

Riprenderci il focus non è solo un compito individuale. È una sfida collettiva. Riguarda il modo in cui costruiamo le nostre tecnologie, ma anche la cultura che le accompagna. Possiamo ripensare le nostre abitudini, ridisegnare le priorità. Non si tratta di abbandonare l’AI, ma di abitare con più consapevolezza il mondo che essa contribuisce a plasmare.

Nel rumore costante dell’era digitale, l’attenzione è resistenza. È presenza. È, forse, il primo passo per tornare davvero a noi stessi.

Authoritative external link:
James Williams, Stand Out of Our LightStand Out of Our Light – Cambridge University Press

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